Io cane , di Roberto Cogo

Nota critica di Armando Bertollo

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“Io cane” di
Roberto Cogo
Nota critica di Armando Bertollo




L’io del poeta si fa ‘animale’, annusa l’ambiente, lo percorre, lo esplora sfiorandolo con i sensi. Si fa amico fedele. Si è lasciato educare. Questa scrittura, infatti, viene da un processo di educazione dell’esperire e vivere la realtà inaugurato dal libro precedente, “Di acque/Di terre”. Con una scrittura controllata, spesso oggettiva e comunicativa, colloquiale a tratti, talvolta sulla soglia aurorale del senso, l’autore ha scelto con convinzione di affidarsi alla natura, di esserne fedele, di ascoltarla, di viverla empaticamente, scrivendo il piacere di coglierne il respiro, l’odore, riscattarne il valore di fondamento, rispettarne il mistero. Il poeta ricerca la ‘naturalezza’ anche nel linguaggio, che tende al discorso che si chiarisce, come acqua sorgiva, con echi di classicità cosmopolita, di “una bellezza senza sfoggio”. Roberto Cogo osserva alberi, nuvole, acque, e altri fenomeni ed esseri con rinnovata verginità. O forse con la nostalgia dello sguardo vergine degli uomini di altri tempi: uno sguardo, in realtà non più recuperabile nella sua originaria purezza. Eppure in questo libro accade che il poeta di oggi possa descrivere la sua salvezza, la sua ‘persuasione’, un personale sollievo dal ‘pessimismo cosmico’ di leopardiana memoria, proprio nell’esperienza di ‘vivere’ e ‘sentire’ concretamente la realtà ambientale, e farne motivo di scrittura. Una comunione a—teologica, eppure profondamente carica di sacralità, rispetto, devozione, positività:

” l’incommensurabile natura delle cose da indagare
senza le angeliche presenze o divine
che non siano dentro

il miracolo della presenza in quanto tale
l’emanazione sacra e la scintilla di vita
in ogni cosa --

né buona né cattiva né bella né brutta
ma carica del proprio elemento vitale --l’adesione
svuota la mente da ogni pretesa”



...Se poi il titolo di questo libro suona come una bestemmia, l’imprecazione è rivolta all’io iperbolico, ipertrofico, dell’uomo occidentale e occidentalizzato, che si è volutamente snaturato per affidarsi ciecamente alle promesse della tecnica, direbbe Severino. Un uomo che usa e consuma l’ambiente dimentico di esserne parte e parte dipendente. Colpevole di rincorrere l’hybris di controllo, di possesso, di consumo, appunto. L’autore condensa nel titolo la sua ombra, ciò che non può dire, la rabbia, l’indignazione. Pertanto “Io cane” è volutamente ambiguo, aperto all’essere animale che si avventura richiamato dai sentieri matrici e materni — non più matrigni, come per l’autore dell’Infinito — dove l’io può diventare ancora “merlo”, “insetto”, “albero”, “acqua”, “uccello”, “legno”, “pesce”, e accusa al perenne cantiere della modernità che divora la natura, la bestemmia — si potrebbe dire, capovolgendo la prospettiva — per fare business. In quell’ombra di non dicibile si potrebbe celare l’intenzione del finale di “Zabriskie Point”: un’apocalisse purificatrice. Ma in realtà resta chiara solo un’imprecazione. Il poeta attende la parola e fa “ciò che deve”: vigila per la salvezza di ciò che ama:

“piante di vario tipo e colore
sono toppe screziate di un abito antico
dove restare per sempre avvolti tutti insieme”





(9 agosto 2009)