Quasi
mai mi è capitato di presentare un testo di poesia e grafica
in connubio in un ambiente così particolare come la
“Casabianca” di Malo in cui è conservata forse la
più importante raccolta, per l’appunto, di
grafica-scritturale a partire dalle avanguardie del secondo ‘900.
Quando, fra l’altro, proprio in seguito alla quasi quotidiana
frequentazione di queste rare e notevoli pagine nascono la
vocazione e lo stile particolarissimo di Bertollo, autore di questa
Ribeltà. Qui il testo grafico-scritturale
dell’autore trova la sua sede quasi naturale. Qui e nel
testo di Bertollo si realizza quella stretta comunione fra scrittura e
segno strutturale che caratterizza alcune delle più
particolari realizzazioni artistiche e poetiche del secolo scorso, e,
come lo stesso Bertollo dimostra, ancora vive e aperte a nuove
sperimentazioni.Qui
e in Bertollo trionfa il segno, come scrittura, come
geometria, come prospettiva.La
semiotica considera il segno la parte visibile e comunicabile di un
significato prammatico, relativo cioè a una
comunicazione utile al vivere e operare quotidiano. Il
segno utile alla prassi e alla necessità di convincimento del
fruitore è abituale nei rapporti umani: il segno vocale di
questo mio breve discorso, per esempio, non è altro che il
modo per comunicarvi e convincervi in merito alla comprensione di un
determinato evento o discorso sull’evento medesimo. E va,
ahinoi, riconosciuto che questo segno utilitaristico contiene anche
una buona dose di mistificazione se non di menzogna: deve raggiungere
lo scopo di convincere l’interlocutore agendo arbitrariamente
sulla sua autonomia di pensiero.
Ma
c’è un altro segno che sfugge alla semiotica per farsi
coinvolgere nella poesia: è il
segno inutile. Fine a se stesso e alla sua natura puramente
spaziale. E’ gestito dai poeti e dagli artisti, soprattutto e
ovviamente, ma, anch’esso influisce sulla nostra quotidianità,
sulla nostra memoria, e perciò sul mistero inconscio della
nostra presenza inspiegabile nell’universo. Persino i segni non
programmaticamente artistici (almeno per via diretta) che ci
coinvolgono semplicemente quando passiamo per le vie della città,
quasi senza che ci sia dato di accorgercene, fra pubblicità,
segnali stradali, architetture di ogni genere, arricchiscono
sotterraneamente la nostra memoria, il che vuol dire la nostra storia
personale e collettiva. Noi siamo quello che segnamo e quello da
cui siamo segnati. Senza che ciò comporti una condizione
di prammatica comprensione. L’arte,
la poesia, la musica altro non sono che la sintesi sublimante di
questa esperienza di per sé nullificante. Ciò,
per esempio, secondo la concezione di un Dio come Nulla di un
mistico medievale quale Meister Eckhart, che intende la divinità
come purezza d’essenza al di là di ogni facile e bassa
qualità umana. Quando ci affacciamo alle opere dell’arte
dobbiamo convincerci che siamo in presenza di quel Nulla piuttosto che del facile
significato volgare. La domanda di prammatica: “cosa significa
in concreto?” è assolutamente ingenua. Un’opera
d’arte non vuol dire alcunché al di fuori della sua,
diciamo pure ‘mistica’ materialità. E’ ciò
che è. Come il Dio di Eckhart che è semplicemente ciò
che è: vale a dire infine Egli, proprio perché senza
nome, è il Tutto! Ovviamente
l’essenza di questa nullità può essere
contornata da utili orpelli, veri o falsi che siano, e non è
certo deprecabile che si voglia cogliere pure quel superfluo, ma ciò
non ci aiuterà a liberare la potenzialità primigenia
della poesia.Al
di fuori di queste concettuali considerazioni è quasi
impossibile definire l’arte e la poesia nella loro essenza.
Vale certo la loro tecnica, il loro stile, perciò possono
essere, ma in verità non sono, piacevolezza, decorazione,
favola… qualcosa che ci diverte, ci fa piangere o ci consola…
Ma questa non è l’essenza primigenia del segno poetico e
artistico, come acutamente ha prima osservato Flavio Ermini. L’arte,
la poesia, la musica sono il fare (poiéin) per essere.
Un’opera d’arte e lì e ci guarda dal suo infinito
eppur materico nulla, e noi, per coglierla, dobbiamo semplicemente
(?!) tentare di entrarci, di entrare in quel mondo parallelo rispetto
al mondo della contingenza. E’ un altro mondo:
chiamiamolo come ci fa più comodo, inconscio, anima, coscienza
della nostra verità d’esistere. La poesia, l’arte
ci donano questa coscienza e lo fanno attraverso i nostri sensi, la
nostra capacità di vedere oltre, di sentire oltre la banalità
della prassi. Noi siamo i nostri sensi, veicoli per giungere alla
energia della nostra mente. Leopardi osserva che la poesia passa
sempre attraverso il commercio dei sensi.Viviamo
circondati, o meglio condizionati dalle cose e dal nostro prossimo.
Ma lo facciamo come se fossimo in coma e non fossimo in grado di
cogliere dei segni il senso dei sensi. L’artista cosa fa? Sa
vedere e cogliere invece quei segni per isolarli dalla realtà
banale, sovente insensibile, del nostro passaggio quotidiano e ci
obbliga, provocandoci veri e propri traumi, a passare alla misterica
ricchezza della non chiaramente visibile realtà altra.
Lo fa rivelando l’ambiguità, la plurivalenza di un
universo dalle infinite aperture. Quella realtà parallela è
vicina, per la verità, alla follia, quella follia vitalissima,
che oltre la vita stessa ci conduce a cogliere, al di fuori dal senso
comune (inteso come pigrizia del pensare), le ragioni prime e ultime
dell’essere.A
queste considerazioni può condurci la geometria (geometria
non euclidea) di Ribeltà di Armando Bertollo. Se
sfogliate questo libro – lasciandovi rapire delle emozioni visive, segniche
e scritturali – dovrete considerare alcune
citazioni, veri e propri versi poetici arginati da una rete di segni
che li comprimono e insieme li indirizzano verso strade ricche di
misteriosi paesaggi prospettici:
Ricordo
con affetto i pazienti del Reparto / di Psichiatria del nosocomio di
Lonigo. / con il loro non senso, con il loro linguaggio disintegrato
o imploso o impossibile / hanno saputo volermi bene…
Ci
sono molti modi di intendere la follia, e uno di questi è
propriamente quello di un linguaggio disintegrato, o imploso o
impossibile che fra le pieghe delle proprie diaclasi nasconde
vitalità d’affetti. Qualcuno
di voi avrà visto qui vicino a Venezia la mostra di Dalì .
Ecco, malgrado le apparenze quella non è follia, bensì
fredda illustrazione della follia: può essere attraente
e sicuramente incuriosisce ma non sommuove e rivela la coscienza: la
sorprende ma non apre le porte ad una sensibilità indicibile.
E’ invece il linguaggio disintegrato che, paradossalmente, apre
la porta sul baratro della verità: un taglio di Fontana,
aperto al mistero, all’aldilà, una plastica bruciata di
Burri che apre voragini materiche non descrivibili, bensì
anche drammaticamente coinvolgenti nella loro totalizzante tragicità. Ma
Bertollo non abbandona il fruitore in questo incerto e faticoso
viaggio, perché ricorda il detto di Andrea Zanzotto:
“Orientarsi poco, in tutto”, vale a dire lasciar
da parte per un attimo la ragione e orientarsi, ma poco, quel tanto
che basta: la poesia è sempre una inattesa rivelazione che va
colta in un momento di distacco dalla contingenza:
“Essere
in disordine / essere per forza morti e spesso / dichiaratamente /
retorici e sciocchi o miseramente / vicini vicini, ‘due volte
vicini’ all’orientamento”.
Le
neuroscienze hanno studiato le mappe cerebrali e in particolare la
corteccia, strumento della logica orientativa, il limbo inconscio
inleggibile delle memorie recenti, il rettiliano deposito delle
memorie ataviche (fino a quando eravamo forse solo amebe). Il poeta
tiene assai alla propria follia e agisce in senso inverso allo
psicanalista: questi vuol spingere le follie del limbo e del
rettiliano verso l’orientamento della corteccia, il poeta vuole
percorrere i misteri del limbo e del rettiliano. Certo non può
rinunciare, per poter vivere nel mondo della prassi, ad orientarsi,
ma deve farlo solo per un poco, per non perdere la ricchezza della
propria prolifica disintegrazione. Bertollo
con il suo progetto segnico sta appunto in bilico, sull’abîme
direbbero i francesi, fra il mistero della parola e la verità
geometrizzante della sua traccia. Bertollo
segna anche l’intreccio dei silenzi. I silenzi, appunto, della
geometria e delle sue implosioni ed esplosioni. Dei suoi frammenti.
Fa una operazione eminentemente spaziale, e lo spazio è
colmo di silenzi. Il musicista Cage durante l’esecuzione delle
sue composizioni tiene sovente il pubblico per alcuni minuti in
assoluto silenzio.Il
pianoforte di Cage è, come si dice, ‘trattato’
anche con mollette che bloccano le corde rivelando strane conturbanti
assonanze. Ecco, dopo aver assordato con suoni assolutamente non
manieristici e abituali, lascia lo spazio alla meditazione silente
degli ascoltatori ancora disorientati. Nel silenzio possono cercare,
senza esagerare, l’orientamento nei segni e nei suoni.
Mai rinnegandone comunque la ricca frantumazione.
Voi,
a questo punto mi direte: “Ma non dovevi parlarci del libro di
Bertollo?” Impossibile ‘parlarne’: dovete
acquistarlo e guardarvelo in silenzio seguendo le tracce di un
orientamento moderato in cui la follia della parola e la razionalità
dell’intreccio segnino trovando il loro equilibrio. Dovrete
sentirvi in equilibrio instabile come funamboli! E anche la paura
farà gioco per cogliere i rischi della nostra esistenza, tanto
più in quanto fuori dal quotidiano. Tutto ciò che ho
detto, sicuramente stancando crudelmente la vostra pazienza, non vuol
essere altro che una (forse una delle tante) chiave di lettura del
testo così composito e straniante del nostro autore. La
pagina di Bertollo è sempre un sommosso campo energetico.
Bertollo coglie le energie occulte del segno e delle sue variabilità.
Dopo tanti discorsi forse si può osservare che il lemma
energia condensa ogni momento dell’avventura di Ribeltà.
Avventura che mette i moto parole in sé talvolta senza
apparente significato, tuttavia messe insieme e orientate verso i più
diversi luoghi, formano una serie di analogie che si incontrano e si
scontrano, segnali che le tracciano, che creano diverse innumerevoli
prospettive fino ad una idea di eterna circolarità.
Circolarità può significare, appunto, quel Nulla di cui
si è detto. Il libro non ha né principio né
fine, potete leggerlo anche partendo dall’ultima pagina, o da
qualsiasi pagina, da destra a sinistra, dall’alto al basso e
viceversa. E’una foresta vergine senza uscita, perché
infinite sono le sue uscite. E’ un testo, una mappa da
percorrere senza tregua riprendendola quando si voglia, quando
rinasca la voglia e il piacere di una avventura segnica e di parola. L’operazione
di Bertollo non può considerarsi comunque personalissima e
gratuita: è il più recente risultato delle ricerche
grafiche e scritturali del ‘900, dai simbolisti alle cosiddette
neo- e post-avanguardie. Rimane sempre comunque fissata un’icona
fondativa e storica: “Le coup de dés” di Mallarmé.
Per
quanto mi riguarda – scusate l’accenno personale –
devo dire che grande è stata questa occasione di ritrovarmi
fra voi, qui a Malo, in questo straordinario scrigno che è la
viva raccolta d’arte della Casabianca, di cogliere e vivere per
un poco le energie della casa del nostro direttore Giobatta Meneguzzo
progettata da Gio Ponti.
Malo,
Museo Casabianca, 20 marzo 2005