Gio Ferri

Intervento per "Ribeltà" di Armando Bertollo

Apuntozeta  
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Quasi mai mi è capitato di presentare un testo di poesia e grafica in connubio in un ambiente così particolare come la “Casabianca” di Malo in cui è conservata forse la più importante raccolta, per l’appunto, di grafica-scritturale a partire dalle avanguardie del secondo ‘900. Quando, fra l’altro, proprio in seguito alla quasi quotidiana frequentazione di queste rare e notevoli pagine nascono la vocazione e lo stile particolarissimo di Bertollo, autore di questa Ribeltà. Qui il testo grafico-scritturale dell’autore trova la sua sede quasi naturale. Qui e nel testo di Bertollo si realizza quella stretta comunione fra scrittura e segno strutturale che caratterizza alcune delle più particolari realizzazioni artistiche e poetiche del secolo scorso, e, come lo stesso Bertollo dimostra, ancora vive e aperte a nuove sperimentazioni.Qui e in Bertollo trionfa il segno, come scrittura, come geometria, come prospettiva.La semiotica considera il segno la parte visibile e comunicabile di un significato prammatico, relativo cioè a una comunicazione utile al vivere e operare quotidiano. Il segno utile alla prassi e alla necessità di convincimento del fruitore è abituale nei rapporti umani: il segno vocale di questo mio breve discorso, per esempio, non è altro che il modo per comunicarvi e convincervi in merito alla comprensione di un determinato evento o discorso sull’evento medesimo. E va, ahinoi, riconosciuto che questo segno utilitaristico contiene anche una buona dose di mistificazione se non di menzogna: deve raggiungere lo scopo di convincere l’interlocutore agendo arbitrariamente sulla sua autonomia di pensiero.


Ma c’è un altro segno che sfugge alla semiotica per farsi coinvolgere nella poesia: è il segno inutile. Fine a se stesso e alla sua natura puramente spaziale. E’ gestito dai poeti e dagli artisti, soprattutto e ovviamente, ma, anch’esso influisce sulla nostra quotidianità, sulla nostra memoria, e perciò sul mistero inconscio della nostra presenza inspiegabile nell’universo. Persino i segni non programmaticamente artistici (almeno per via diretta) che ci coinvolgono semplicemente quando passiamo per le vie della città, quasi senza che ci sia dato di accorgercene, fra pubblicità, segnali stradali, architetture di ogni genere, arricchiscono sotterraneamente la nostra memoria, il che vuol dire la nostra storia personale e collettiva. Noi siamo quello che segnamo e quello da cui siamo segnati. Senza che ciò comporti una condizione di prammatica comprensione. L’arte, la poesia, la musica altro non sono che la sintesi sublimante di questa esperienza di per sé nullificante. Ciò, per esempio, secondo la concezione di un Dio come Nulla di un mistico medievale quale Meister Eckhart, che intende la divinità come purezza d’essenza al di là di ogni facile e bassa qualità umana. Quando ci affacciamo alle opere dell’arte dobbiamo convincerci che siamo in presenza di quel Nulla piuttosto che del facile significato volgare. La domanda di prammatica: “cosa significa in concreto?” è assolutamente ingenua. Un’opera d’arte non vuol dire alcunché al di fuori della sua, diciamo pure ‘mistica’ materialità. E’ ciò che è. Come il Dio di Eckhart che è semplicemente ciò che è: vale a dire infine Egli, proprio perché senza nome, è il Tutto! Ovviamente l’essenza di questa nullità può essere contornata da utili orpelli, veri o falsi che siano, e non è certo deprecabile che si voglia cogliere pure quel superfluo, ma ciò non ci aiuterà a liberare la potenzialità primigenia della poesia.Al di fuori di queste concettuali considerazioni è quasi impossibile definire l’arte e la poesia nella loro essenza. Vale certo la loro tecnica, il loro stile, perciò possono essere, ma in verità non sono, piacevolezza, decorazione, favola… qualcosa che ci diverte, ci fa piangere o ci consola… Ma questa non è l’essenza primigenia del segno poetico e artistico, come acutamente ha prima osservato Flavio Ermini. L’arte, la poesia, la musica sono il fare (poiéin) per essere. Un’opera d’arte e lì e ci guarda dal suo infinito eppur materico nulla, e noi, per coglierla, dobbiamo semplicemente (?!) tentare di entrarci, di entrare in quel mondo parallelo rispetto al mondo della contingenza. E’ un altro mondo: chiamiamolo come ci fa più comodo, inconscio, anima, coscienza della nostra verità d’esistere. La poesia, l’arte ci donano questa coscienza e lo fanno attraverso i nostri sensi, la nostra capacità di vedere oltre, di sentire oltre la banalità della prassi. Noi siamo i nostri sensi, veicoli per giungere alla energia della nostra mente. Leopardi osserva che la poesia passa sempre attraverso il commercio dei sensi.Viviamo circondati, o meglio condizionati dalle cose e dal nostro prossimo. Ma lo facciamo come se fossimo in coma e non fossimo in grado di cogliere dei segni il senso dei sensi. L’artista cosa fa? Sa vedere e cogliere invece quei segni per isolarli dalla realtà banale, sovente insensibile, del nostro passaggio quotidiano e ci obbliga, provocandoci veri e propri traumi, a passare alla misterica ricchezza della non chiaramente visibile realtà altra. Lo fa rivelando l’ambiguità, la plurivalenza di un universo dalle infinite aperture. Quella realtà parallela è vicina, per la verità, alla follia, quella follia vitalissima, che oltre la vita stessa ci conduce a cogliere, al di fuori dal senso comune (inteso come pigrizia del pensare), le ragioni prime e ultime dell’essere.A queste considerazioni può condurci la geometria (geometria non euclidea) di Ribeltà di Armando Bertollo. Se sfogliate questo libro – lasciandovi rapire delle emozioni visive, segniche e scritturali – dovrete considerare alcune citazioni, veri e propri versi poetici arginati da una rete di segni che li comprimono e insieme li indirizzano verso strade ricche di misteriosi paesaggi prospettici:


Ricordo con affetto i pazienti del Reparto / di Psichiatria del nosocomio di Lonigo. / con il loro non senso, con il loro linguaggio disintegrato o imploso o impossibile / hanno saputo volermi bene…


Ci sono molti modi di intendere la follia, e uno di questi è propriamente quello di un linguaggio disintegrato, o imploso o impossibile che fra le pieghe delle proprie diaclasi nasconde vitalità d’affetti. Qualcuno di voi avrà visto qui vicino a Venezia la mostra di Dalì . Ecco, malgrado le apparenze quella non è follia, bensì fredda illustrazione della follia: può essere attraente e sicuramente incuriosisce ma non sommuove e rivela la coscienza: la sorprende ma non apre le porte ad una sensibilità indicibile. E’ invece il linguaggio disintegrato che, paradossalmente, apre la porta sul baratro della verità: un taglio di Fontana, aperto al mistero, all’aldilà, una plastica bruciata di Burri che apre voragini materiche non descrivibili, bensì anche drammaticamente coinvolgenti nella loro totalizzante tragicità. Ma Bertollo non abbandona il fruitore in questo incerto e faticoso viaggio, perché ricorda il detto di Andrea Zanzotto: “Orientarsi poco, in tutto”, vale a dire lasciar da parte per un attimo la ragione e orientarsi, ma poco, quel tanto che basta: la poesia è sempre una inattesa rivelazione che va colta in un momento di distacco dalla contingenza:


Essere in disordine / essere per forza morti e spesso / dichiaratamente / retorici e sciocchi o miseramente / vicini vicini, ‘due volte vicini’ all’orientamento”.


Le neuroscienze hanno studiato le mappe cerebrali e in particolare la corteccia, strumento della logica orientativa, il limbo inconscio inleggibile delle memorie recenti, il rettiliano deposito delle memorie ataviche (fino a quando eravamo forse solo amebe). Il poeta tiene assai alla propria follia e agisce in senso inverso allo psicanalista: questi vuol spingere le follie del limbo e del rettiliano verso l’orientamento della corteccia, il poeta vuole percorrere i misteri del limbo e del rettiliano. Certo non può rinunciare, per poter vivere nel mondo della prassi, ad orientarsi, ma deve farlo solo per un poco, per non perdere la ricchezza della propria prolifica disintegrazione. Bertollo con il suo progetto segnico sta appunto in bilico, sull’abîme direbbero i francesi, fra il mistero della parola e la verità geometrizzante della sua traccia. Bertollo segna anche l’intreccio dei silenzi. I silenzi, appunto, della geometria e delle sue implosioni ed esplosioni. Dei suoi frammenti. Fa una operazione eminentemente spaziale, e lo spazio è colmo di silenzi. Il musicista Cage durante l’esecuzione delle sue composizioni tiene sovente il pubblico per alcuni minuti in assoluto silenzio.Il pianoforte di Cage è, come si dice, ‘trattato’ anche con mollette che bloccano le corde rivelando strane conturbanti assonanze. Ecco, dopo aver assordato con suoni assolutamente non manieristici e abituali, lascia lo spazio alla meditazione silente degli ascoltatori ancora disorientati. Nel silenzio possono cercare, senza esagerare, l’orientamento nei segni e nei suoni. Mai rinnegandone comunque la ricca frantumazione.


Voi, a questo punto mi direte: “Ma non dovevi parlarci del libro di Bertollo?” Impossibile ‘parlarne’: dovete acquistarlo e guardarvelo in silenzio seguendo le tracce di un orientamento moderato in cui la follia della parola e la razionalità dell’intreccio segnino trovando il loro equilibrio. Dovrete sentirvi in equilibrio instabile come funamboli! E anche la paura farà gioco per cogliere i rischi della nostra esistenza, tanto più in quanto fuori dal quotidiano. Tutto ciò che ho detto, sicuramente stancando crudelmente la vostra pazienza, non vuol essere altro che una (forse una delle tante) chiave di lettura del testo così composito e straniante del nostro autore. La pagina di Bertollo è sempre un sommosso campo energetico. Bertollo coglie le energie occulte del segno e delle sue variabilità. Dopo tanti discorsi forse si può osservare che il lemma energia condensa ogni momento dell’avventura di Ribeltà. Avventura che mette i moto parole in sé talvolta senza apparente significato, tuttavia messe insieme e orientate verso i più diversi luoghi, formano una serie di analogie che si incontrano e si scontrano, segnali che le tracciano, che creano diverse innumerevoli prospettive fino ad una idea di eterna circolarità. Circolarità può significare, appunto, quel Nulla di cui si è detto. Il libro non ha né principio né fine, potete leggerlo anche partendo dall’ultima pagina, o da qualsiasi pagina, da destra a sinistra, dall’alto al basso e viceversa. E’una foresta vergine senza uscita, perché infinite sono le sue uscite. E’ un testo, una mappa da percorrere senza tregua riprendendola quando si voglia, quando rinasca la voglia e il piacere di una avventura segnica e di parola. L’operazione di Bertollo non può considerarsi comunque personalissima e gratuita: è il più recente risultato delle ricerche grafiche e scritturali del ‘900, dai simbolisti alle cosiddette neo- e post-avanguardie. Rimane sempre comunque fissata un’icona fondativa e storica: “Le coup de dés” di Mallarmé.


Per quanto mi riguarda – scusate l’accenno personale – devo dire che grande è stata questa occasione di ritrovarmi fra voi, qui a Malo, in questo straordinario scrigno che è la viva raccolta d’arte della Casabianca, di cogliere e vivere per un poco le energie della casa del nostro direttore Giobatta Meneguzzo progettata da Gio Ponti.





Malo, Museo Casabianca, 20 marzo 2005