letture 2010 | |
kata |
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Letteralmente, la parola giapponese «kata» significa «forma». Quanto vasto sia, per noi occidentali, il dominio di applicazione di questo concetto, lo testimonia il suo irrompere, dalle altezze della metafisica in cui primariamente dai Greci fu descritto, nella vita di tutti i giorni, in cui anche all’uomo della strada è evidente quanto il potere sia in rapporto con l’in-formazione. In una società e una cultura tradizionali come quella giapponese, tuttavia, la forma non è soltanto la nozione di contorno, di aspetto esteriore di qualcosa che «sta di fronte» (oggetto), che qui in Occidente si è impadronita del reale, astrattizzandolo, svuotandolo, in una progressione di potenza che l’ha vista diventare successivamente «a-priori» kantiano, «forma-di-denaro», «in-formatica». Tokitsu propone questa sintetica definizione del «Kata» : «sequenza composta da gesti formalizzati e codificati, sottesa da uno stato di spirito orientato verso la realizzazione della Via ( dô) . La nozione orientale tradizionale di «forma», quindi, non e «oggettiva», ma «soggettiva», e coincide sostanzialmente con la nozione di «rito», nella sua accezione etimologica di «azione giusta, gesto appropriato» . La nozione giapponese di «forma» ha percio sempre posseduto la capacità di fare da cerniera tra essere e divenire, tec nica e spontaneità, stilema e percezione estetica, tradizione e modernizzazione, esteriorità sociale e interiorità «privata> (ammesso che quest’ultimo concetto possa essere utilizzato per una società tradizionale). Percorrendo in lungo e in largo la storia del Giappone e scavando in profondità filoni specifici, come la figura del Maestro di spada Yamaoka Tesshu, la chiusura su se stesso del Giappone tra i primi del ‘600 e il 1854 (data di arrivo della flotta americana del commodoro Perry nella baia di Tokyo), il rapporto tra la temporalità intrinseca al «kata» e la morte (esemplificato attraverso un esame dello Hagakure ( il codice segreto dei samurai), le figure degli scrittori Yukio Mishima, Mori Ogai ecc., Tokitsu rintraccia l’emergere e lo strutturarsi della nozione di «kata», a un tempo filosofia, tecnica, insegnamento, obiettivo e mezzo, che illumina tutti i percorsi che nella cultura tradizionale del popolo giapponese sono legati all’idea della ricerca della perfezione nel quadro di una tensione verso l’autorealizzazione personale.
Kenji Tokitsu, nato in Giappone, ha praticato fin da bambino diverse arti marziali. Laureato in Giappone (Università Hitotsubashi) e in Francia (sociologia), insegna karate a Parigi dal 1971. Numerosi anni di pratica appassionata del karate tradizionale lo hanno portato a svilupparne una critica pratica e teorica e a effettuare poi delle ricerce storiche sulle arti marziali giapponesi e cinesi. Nel 1984 egli fonda la scuola Shaolin-mon dove insegna un’arte marziale che è una sintesi originale delle arti marziali giapponesi e cinesi. Egli riprende, con un pensiero moderno, il vero obiettivo delle arti marziali orientali: la ricerca di un’efficacia che si prolunga durante tutta la vita e che si accompagna a un benessere attraverso una regolazione intelligente dell’energia. Di Kenji Tokitsu la Luni Editrice ha già pubblicato: L’arte del combattere (1993), Storia del Karate. La via della mano vuota (1995), Shaolin—mon. Verso l’arte marziale del futuro (1999), Il ki e il senso del combattimento (2002), Vita di Musashi, il più grande guerriero del Giappone (2002), Musashi e le arti marziali giapponesi (2003), e la traduzione commentata del Libro dei Cinque Elementi (2004). |