"Nulla è piú astratto del reale"
GIORGIO MORANDI
Fino agli inizi del XX secolo, la natura, intesa quale luogo anonimo in cui l´orrido, l´ameno e il sublime
armeggiano fra loro,
trovò nella rappresentazione del paesaggio la propria temporanea nominabilità. Ma ciò non fu possibile, schematizzando,
se non
attraverso le allegorie della selva e del giardino, archetipi, rispettivamente, del caos e dell´ordine, che spesso si
diedero
insieme, l´uno dentro l´altro, battaglieri, oppure si fusero in un grado superiore, come nella commedia dantesca,
allorché
è il
fiorentino descrisse la "foresta" dell´Eden, evidenziandone la valenza fisica ed il perpetuo vigore, capaci di stemperare lo
spavento che in ogni uomo produce l´avvento del nuovo:
"Vago già di cercar dentro e dintorno la
divina foresta spessa e viva,
ch´a li occhi temperava il nuovo giorno"
recita l´ incipit del XXVIII canto
purgatoriale, aprendo ad una visione antropologica
del luogo, visto quale spazio "terrestre" dotato di senso, nel quale il soggetto trova benevola collocazione e
al quale si
rimette con ottimismo. Certo, nella storia della cultura occidentale, di questa circolarità materna (e talvolta matrigna)
gli
uomini s´inebriarono, oppure in essa vacillarono e però mai smisero di cercarla, come accadde nel Romanticismo, ma anche,
per
citare esperienze più recenti, nelle avanguardie novecentesche, nel loro volo vertiginoso e autosufficiente, dove il
paesaggio
finalmente sfuma, dissolve la sua valenza naturale e di "genere", per diventare spazio tout court, dimensione
sferica
malleabile, secondo una prospettiva assunta a metodo dallo Spazialismo, che lo intese quale "forma del vuoto", "materia
plastica" con la quale organizzare l´esperienza artistica. Non più dunque selva o giardino entro cui racchiudere
l´orizzonte
naturale com´era stato fino all´età del realismo, e nemmeno selva urbana o luce chiaroscurale proprie alle esperienze
francesi successive, dove ancora riverberava un´idea di rappresentazione, bensì, appunto, il campo di forze
che rimane
in gioco tolta ogni cosa sensibile; la natura, insomma, prima che diventi paesaggio, quand´è ancora energia esplosiva,
colore, tratto rapido, macchia sulla quale cimentarsi senza rete.
L´idea compositiva di Pierluigi Macorig deve molto a questa esperienza fondamentale, pur mantenendosi un passo a lato
dall´estremizzazione del concetto, così da concedere di nuovo al paesaggio una possibilità significante. Il suo fare
artistico, infatti, si pone certamente l´obiettivo supremo di mettere in opera lo spazio, di crearlo ex novo
sulla tela,
ma lo fa attraverso la mediazione di un paesaggio allusivamente valleogrino, governato da campiture oblique, da un agire
fatto spesso di spatola e gesti istintivi, e da una prospettiva cromatica tutta giocata su minuscole variazioni di colori
freddi e fortemente contrastivi, quali il verde e il blu. La scelta contrastiva, producendo un ritmo continuamente
spezzato, come nel jazz, si traduce in complessità volumetrica, in un succedersi di vuoti e pieni ottenuti anche con
la differenziazione cromatica dei piani, con la matericità del segno e, appunto, con geometrie scalene.
La poliritmia così innescata non soltanto apre un´accesa tridimensionalità ricca di campi di tensione interni, ma nel
contempo impedisce all´occhio di contenere l´opera nella sua interezza, di poterla leggere univocamente, per cui
l´osservatore
è costretto a lasciarsi andare ad essa in modo diacronico, soffermandosi di volta in volta in sezioni particolari del
dipinto,
che così assurgono le veci dell´intero, svelando quanto mai la loro familiarità con l´astrattismo. Non a caso, Macorig
viene
da quella scuola, in un´evoluzione espressiva che l´ha portato, verso la metà degli anni Novanta, a trovare appunto nel
paesaggio l´occasione per parlare d´altro: allora, si trattava di riportare lo sguardo all´armonia degli inizi, ad
un´età
in cui l´uomo viveva senza contrasti nel sistema della natura; un messaggio ottenuto con una pittura distesa e giocata
sulle tonalità dell´ocra, dove segno e sfondo, colore e supporto si davano insieme in una leggerezza cara anche
all´iconografia orientale. Quest´eleganza quasi asiatica ora si legge nella passione per la pennellata decisa eppure
armoniosa, e per la verticalità di alcune immagini spesso scorciate e allusive; ma anche nella messa in scena della
montagna/tempio, che sacralizza lo spazio della visione e si erge quale correlativo oggettivo del bisogno di verità
dell´artista. In questo senso, la ricerca di Macorig si è fatta nel tempo sempre piùinteriore, sempre più
esistenziale, tesa com´è a cercare nel profondo del sé (meglio sarebbe dire, per riprendere un concetto della
psicoanalisi junghiana: dentro l´inconscio collettivo) quel bisogno di un senso fondante che la storia,
invece,
ha perduto da un pezzo, e che l´opera macorighiana ritrova appunto nello spazio/paesaggio, che si offre
primariamente
quale centro ospitante, locus amoenus ma non passivo entro cui transitare all´infinito, perdendosi
nelle sue
variazioni strutturali e cromatiche, con quella campagna ripartita in piccoli lotti e quei paesini pedemontani
appena accennati, che ravvivano memorie familiari ed esperienze condivise.
© La pubblicazione sul Sito apuntozeta del saggio ,delle opere
e della
biografia dell´artista scledense Macorig , per gentile concessione di Stefano Gulglielmin
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