Non è ancora l´alba del 31 dicembre 1940; Mario Noaro ha diciotto anni e una gran voglia di vincere la gravità. E
allora, invece di sprofondare nel buio dell´osteria o di stare a cuccia con gli amici inabili alla guerra, sale sulla sua
bicicletta, mette nello zaino lardo, datteri e due fette di polenta, e in solitudine s´avvia fino al Vaio d´Uderle, base della
parete sud del "gran solco", la via pasubiana del Sojo Rosso: 400 metri di verticale da bruciare in poche ore, almeno secondo
i piani di Mario, provetto scalatore. Ma qualcosa va storto, decisamente storto, tanto che qualche settimana dopo, lo stesso
ragazzo giace in un letto d´ospedale, le gambe tagliate di netto sotto il ginocchio per evitagli la cancrena. Una tragedia
totale: fuori c´è la guerra, gli amici buoni già scaldano i gambali per l´inforcata sovietica ed anche alla Lanerossi, dove
Mario da un paio d´anni fa l´apprendista, le cose vanno così e così. E tuttavia lui non si arrende, non molla la presa. Anche
perchè, ultimamente, ha scoperto un´altra parete, quasi dello stesso colore del Sojo. E se a dargli una dritta per come si
appoggiano le mani sulle rocce era stato lo scledense Raffaele Dalle Nogare, per la nuova parete, bifida quanto la prima,
ci aveva pensato il maestro Alfredo Ortelli, rivelandogli le regole buone per imbastire il mondo sul cavalletto. SÌ perché
Noaro, non soltanto faticava fra le pezze delle fabbrica ed amava smisuratamente le creste alpine, ma si dilettava anche
di pittura, avendone ereditata l´attitudine dal padre, perduto in tenera età. E dunque fra queste crode egli non si arrende,
tanto che alla fine della guerra ha assimilato, sia pure a modo suo, la pennellata geometrica di Paul Cézanne, la festosa
musicalità coloristica dei Fauve, l´esperienza del "quotidiano" propria al "gruppo dei sei-frequentato dall´Ortelli nel
suo lungo soggiorno torinese-e la sensibilitàlirico-espressionista del gruppo di "Corrente", portata a Schio
probabilmente da Dino Lanaro: il meglio insomma dell´antiretorica europea e di una concezione della vita fondata sullo sguardo che si rimette al mondo con emozione e sincera curiosità.
E d´altro canto emozionato deve esserlo stato davvero, Mario, il 22 settembre del 1945 quando partecipò alla "Prima mostra
d´arte" allestita dalla neonata Unione Degli Artisti Scledensi, nella quale si formò l´intelligenza creativa locale del
successivo quarto di secolo. Fra i migliori, Mario Noaro spiccò per coerenza e voglia di sprovincializzazione, pecca,
quest´ultima, che sfiatava più d´uno dei pur valorosi artisti scledensi. Ma la vera manna arrivò nel 1953, quando la Lanerossi
sostenne finanziariamente e logisticamente la nascita del Gruppo Amici Della Arti Figurative, sorto entro il suo variegato
progetto dopolavoristico. Cominciano così per tutti gli iscritti le mostre e i concorsi, documentati minuziosamente dalla
rivista "Noi della Lanerossi", straordinaria occasione di confronto e di discussione sulla pratica e sulla teoria dell´arte,
entro la quale Mario ebbe un ruolo decisivo, atto a spiantare-per dirla con piglio enfatico-l´erbaccia tradizionalista che,
in quella testata, si ostinava a sbertucciare l´euforia eccessivamente moderna dell´avanguardia scledense. Noaro, con la sua
proverbiale tenacia ma senza sbavare, rispondeva a tutti per le rime, punto su punto, salvando lo sperimentalismo d´ogni dove
ed invitando i detrattori a guardare il presente quale frutto marcio eppure necessario del passato. Marcio, necessario e vero. Assolutamente vero.
Per fortuna, la lungimiranza aziendale favorì in parte la tesi noariana, affidando la formazione estetica del gruppo alle
sicure competenze della professoressa Ada Zanolo, che lo seguirà dal 1955 al 1963, imbastendo corsi di formazione e viaggi
culturali nei maggiori musei italiani.
E siamo dunque negli anni sessanta, quando l´Unione Degli Artisti Scledensi ha già chiuso le luci, e Noaro ha prodotto forse il
meglio del suo repertorio artistico, vincendo numerosi premi, fra i quali la medaglia d´oro per la pittura, conferitagli
direttamente dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi; per non dire dell´invito a partecipare alla conferenza
internazionale di critica d´arte dell´UNESCO, a Venezia. Niente male per un dilettante, del quale, con una certa involontaria
lungimiranza, nel 1949 "Avvenire d´Italia" aveva scritto come di un incendiario, di un anarchico pittante che cerca "un grido,
talora violento, ma sempre un grido di meraviglia, per quello che dall´occhio rimbalza alla sensibilità dello spirito e si
stempra nella tela col candore della naturale immediatezza". Parole sante, che lo scledense confermò pienamente. A patto però
di trasformare quella "naturale immediatezza", dal sapore un po´ naif, in metodo, in scelta stilistica. Noaro infatti altro non
fece, per tutta la vita, che perseguire la ricerca della propria voce, riconoscendone anzitutto il timbro nei pittori che
avevano provato, prima di lui, a sfrondare il decadentismo della sua vena tragica; penso a Filippo De Pisis, con il suo
vitalismo sfrenato eppure sempre interno ad un´idea compositiva rigorosa ed armonica; oppure alla sensibilità espressiva
di Henri Matisse, i cui colori sembravano campi di tensione sgorganti da un´anima tesa a raccontare la propria origine
edenica.
Insomma, l´irsuto Noaro-che negli anni cinquanta, non soltanto aveva fondato il G.A.A.F. (oltreché il Gruppo Amici della
Montagna) e sbaraccato premiopoli, ma aveva nel contempo sposato la signora Maria, diventando padre per tre volte - negli anni
sessanta prosegue febbrilmente la sua attività artistica, affiancandole quella di insegnante di pittura per le nuove leve
lanerossiane, sostenuta anche da Silvio Cavedon, e che proseguirà fino al 1978, quando gli stessi Amici Delle Arti Figurative,
arrendendosi all´evidente mancanza di giovani pittori nelle fila aziendali, diedero forfait.
Nel frattempo era nato il Gruppo Artisti Scledensi, con la nuova generazione di pittori slegata dalla Lanerossi, e,
perciò stesso, protesa a cercare sostegni concreti altrove. Ecco allora il sodalizio con i commercianti di via "Sareo" e
l´avvio di un´attività artistica più indipendente ma certo più difficile da sostenere sotto il profilo progettuale, nella
quale Mario Noaro si butta comunque con entusiasmo, affiancandola con quella dello scrivere in versi; passione piuttosto
tarda, quest´ultima, e che si tradurrà in una collaborazione stretta con "La Panocia". Sono i suoi ultimi impegni pubblici,
anche per il sopraggiungere di complicazioni a quelle maledette gambe che lo obbligano a lunghi ritiri ospedalieri e ad
ulteriori amputazioni. Però la testa funziona sempre, e quando Gian Paolo Resentera, in un bell´articolo uscito su "Schio"
sul finire degli anni ottanta, lo invita a ricostruire "la stagione ´eroica´ dell´arte scledense", Noaro non se lo fa
ripetere due volte, e redige sui Numeri Unici 1990-1992, la Storia dell´Arte Scledense dal 1926 al 1978.
Negli anni novanta, del giovane scalatore rimangono sia l´intatta passione per la natura (che si concretizza in una egregia
collezione di minerali, racimolata senza clamore nel corso degli anni) e sia una vivissima curiosità per le vicende umane;
oltre che, sul versante creativo, molte opere di pregio, disseminate in America, Australia, Francia, Germania, Svizzera e
Sud Africa. Per fortuna un buon numero di esse appartiene ancora alla famiglia e ai collezionisti locali tanto che alla sua
morte, avvenuta nel 2002 varcati da poco gli ottant´anni, le figlie e i nipoti hanno organizzato una lodevole retrospettiva
a Palazzo Toaldi-Capra, ricca di materiale documentario e di dipinti ad olio, di acquerelli e di chine, che coprivano l´intero
arco della sua attività. Come rilevavo nel pieghevole d´accompagnamento alla mostra, l´indole inquieta del pittore scledense,
che nemmeno i legami culturali prima citati erano riusciti a sopire, si evidenziò simbolicamente nella frequenza del segno
diagonale, che rinvia appunto al conflitto interiore fra istinto e ragione, fra natura e cultura, fra eros ed ethos. Diagonale
che trovò nel tempo collocazione entro tre linee fondamentali: quella del reticolo materico cromaticamente modulato senza
soluzioni di continuità, quasi a voler fissare, nel denso impasto dei pigmenti che dà forma al paesaggio, la rapinosa
elusività del mondo e della coscienza; quella che invece mira all´essenzialità delle forme naturali, agguantate con poche
e rapide pennellate, ad annunciare ermeticamente il loro sbocciare dal silenzio, dal bianco di una tela appena sfiorata; e
la linea, infine, che deve al Morandi delle nature morte l´analogia spazio=esistenza, con il conseguente lirismo metafisico
che l´accompagna.
Fra questi tre vertici si mosse dunque il variegato universo pittorico di Mario Noaro, uomo sempre in cerca della bellezza,
a patto che questa fosse attraversata dalla vita, segnata dal tempo e praticabile dall´esperienza. Una bellezza insomma lontana
dalla perfezione sferica, rinascimentale, e piagata invece dalla fragilità umana, più vicina alla terra che a Dio. Una terra
simile a quella che Mario diciottenne probabilmente trovava fra gli anfratti rocciosi delle Piccole Dolomiti e che lui
sbriciolava con le dita o semplicemente annusava, prima di salire ancora, fino alla cima, là dove il principio e la fine
s´incontrano ed ogni istante si eterna.
Stefano Guglielmin
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