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A proposito della personale di Franco Santacatterina: proposta di analisi
Sulla verità dell´opera. Scrive Bruno Cassinari, artista piacentino contemporaneo: "Il disegno non inganna, rispecchia
nel modo più esatto la nostra vita interiore. Più della pittura... Il disegno non permette di barare... Il disegno è
la voce della verità!" La citazione è d´obbligo poiché ce l´addita lo stesso Santacatterina quale chiave interpretativa
della propria opera. Egli ci dice che occorre comprendere le ragioni di una scelta - il disegno a china nera - che è
anzitutto di natura introspettiva. In questo senso, la nudità del segno ci racconta il destino dell´artista, ci dice
l´orizzonte della sua indifesa presenza. Col disegno egli si mostra, svela a se stesso e agli altri, chi è. E di sicuro
egli è un uomo coraggioso, appunto perché capace di confrontarsi con i propri limiti, con la verità dei propri limiti,
senza censure. Non c´è mezza misura: verità e limite si danno insieme, in un continuo rimando rischioso. Un passo indietro
e l´autenticità si perde, diventa luogo comune, stereotipia, menzogna. Santacatterina queste cose le sa, ma è con pudore
che le mette in gioco, evitando cosí l´ostentazione, il rumore tipico della chiacchiera.
Ma qual è la verità che nelle sue chine si mostra? Entro quale orizzonte di senso esse si muovono?
Credo che non sia fuorviante indagare anzitutto il tempo di realizzazione che ogni suo disegno richiede: 50, 60 ore di
rigorosa disciplina, nella quale l´artista accarezza la forma abbozzata, la tocca, la fa propria punto dopo punto, la
abita. Ed è questo, mi sembra, il suo tempo migliore, il rifugio prediletto entro il quale cresce e si comprende, è
questo il nido, il grembo che lo protegge e gli consente autenticità. Per questa ragione i luoghi della sua infanzia e gli
oggetti familiari hanno i sopravvento: il Tretto (nei disegni degli anni scorsi) ed ora le paglie, le cortecce, le stoffe,
le foglie, le pietre; esse sono infatti memorie di casa, compagnie care da custodire nel nido, per abitarlo senza dolore.
Chiaro però che nido e grembo non sono ricoveri accidentali, bensí hanno valenza simbolica, rinviando ad una delle figure
archetipiche dominanti del fare poietico (non soltanto occidentale): l´origine, il mito dell´origine, entro il quale
s´inscrive la giustificazione del dolore presente ma anche la possibilità del suo riscatto. L´unicità dell´opera, il
rifiuto dell´autore di duplicarla in serigrafia o stampa, risiede appunto in questa sacralità, in questo tempo
straordinario ed epifanico, che egli ricrea e in cui si rifugia ogni volta daccapo, disegno dopo disegno.
Sulla tecnica. L´autore ribadisce la necessità di possedere una buona mano, quasi che altrimenti non si dia artista.
In sintonia con la cultura artigianale locale altamente specializzata, egli non sa dunque rinunciare a questo momento
d´esibizione, ne sente la necessità, sottolineando con ciò la fratellanza delle arti legate alla produzione di manufatti.
Ma questa corrispondenza viene superata laddove il soggetto rappresentato non è la cosa a tutto tondo, bensì il suo
ritmo, la sua lirica presenza allusiva, il suo mistero materico, quella che - più sopra - abbiamo chiamato la verità
dell´opera. Per questa ragione i lavori in cui viene meno la lusinga della composizione, dell´equilibrio per forza
( paglie, reti, concrezioni, corde) sono le sue cose migliori: proprio perché mostrano e nascondono insieme, ci cambiano
la prospettiva, ci sviano in sentieri inaspettati, proiettandoci in un "troppo vicino" che ci disorienta e ci chiama a sé.
Un disorientamento necessario e che colloca a pieno titolo Santacatterina nello scenario della cultura del Novecento, età
che ha fatto anch´essa, dell´origine e del labirinto, due sue figure centrali.
Se un osservazione critica è concessa, essa va verso un sollecito all´approfondimento delle due figure, al fine di azzerare
il compiacimento che talvolta traspare in alcuni motivi ornamentali; ne guadagnerebbe la cifra del tragico, che - date le
premesse - è ancora quasi del tutto implicita, ma certo feconda d´autenticità. Perchè allora non approfondire la ricerca
in tal senso? Questo, naturalmente, senza che il disegno perda in leggerezza. Non dunque pensiero che complichi il segno,
ma la verità nascosta, dolorosa, che in qualche modo respiri più a fondo negli interstizi, si sveli, dando spessore al
fare, ma non lo appesantisca. E´ un invito a guardare al Caos, a concedergli udienza, senza tuttavia tradire l´urgenza
della Forma, che in Santacatterina è piuma, nuvola, respiro, è cosa leggera e lucente.
Schio, aprile 1999
Stefano Guglielmin
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Note sulla Via Crucis di Franco Santacatterina
L´occasione corrente, questa che ci offre Franco Santacatterina donando alla Chiesa di SS.Trinità un´intensa Via Crucis, ci
permette di fissare un´altra tappa del suo significativo lavoro a carta e china, minuziosa attività puntinistica che
soltanto di sguincio partecipa della precisione tecnologica propria dell´artigianato locale. La cosa appare ancora più
evidente a chi, e sono in molti anche fra i parrocchiani, conoscono le opere precedenti dell´artista: l´ossessiva
attenzione al dettaglio e la precisione estrema con le quale egli si misura, dando forma a paglie, cortecce, corde e
concrezione minerali, costituiscono soltanto il punto di partenza del suo fare artistico; esse infatti altro non sono
che strumenti di una partitura tesa a riprodurre quanto non appartiene ai sensi, ma piuttosto al cuore, a quel fuoco
interiore, musicalmente franto, che dà l´avvio all´atto creativo. Un ritmo e un´armonia che vengono, in sostanza, a far
coincidere natura ed io profondo, macrocosmo e microcosmo, suggerendoci un cammino da seguire, una direzione di fede nel
creato, quale espressione di un mistero che ci chiama e nel quale riflettere tutta la nostra inquietudine esistenziale.
Questa prospettiva tuttavia, nella Via Crucis, viene momentaneamente sospesa, subordinata ad un´altra ben più complessa,
che rinvia allo scandalo della crocifissione, all´evento cioè che ha segnato definitivamente la perdita d´innocenza della
civiltà occidentale. Il Cristo crocifisso ha infatti rivelato al mondo la violenza intrinseca in ogni atto sacrificale,
imponendo ai credenti la scelta dell´amore sconfinato, di contro ad un sacro, quello precedente al Cristianesimo, lacerato
dal dominio rituale del potere sulla vittima. Questa consapevolezza pare attraversare anche l´iconografia di Santacatterina:
nelle tavole della Via Crucis la natura infatti scompare, rivelando la sua impotenza redentrice rispetto alla tragicità
della storia, luogo della caduta adamitica ma anche teatro del male a partire da Caino, fondatore di città e precursore
di tutto l´Occidente stanziale. Da buon credente, Franco ci mette di fronte alla necessità di affrontare il male, di
guardarlo in volto, a partire dall´esempio di Cristo fattosi uomo. Un Cristo, dunque, maestro nell´additare che nulla è
più precipuo alla natura umana che la morte, e che dobbiamo assumerla in noi fino in fondo per poter amare davvero
il prossimo. Nella passione dei volti e nella lacerazione dei corpi rappresentati, Santacatterina ci racconta tutto
questo, quasi in un´ossessione autobiografica, leggibile in particolare nella resurrezione della quindicesima tavola, proprio
quella assente dal canone (che, com´è noto, termina con la deposizione), là dove egli tende ad esorcizzare l´ineluttabilità
della sofferenza storica, in favore di un destino gravido di speranza nel riscatto ultraterreno.
Al di là della scelta tematica, di certo coerente col Franco umanissimo che tutti conosciamo, mi sembra che il suo stile
sia soprattutto riconoscibile nelle pieghe delle vesti del Salvatore le quali, se lette in macroscopia, ricordano le
nature labirintiche già apprezzate in tanti suoi disegni precedenti. Pieghe che, dunque, non vanno lette secondo una
prospettiva realistica, ma quali occasioni di stile, quasi una firma d´autore, che, in esse, trasfonde la cifra della
propria arte e, dunque, la misura del proprio orizzonte estetico.
Schio ,11 marzo 2001
Stefano Guglielmin
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L´arcaico e il moderno nelle chine di
Franco Santacatterina
La prima volta che scrissi sull´arte di Franco Santacattenna, evidenziai due nuclei tematici, assolutamente presenti anche oggi: la ricerca dell´origine, emblematicamente raffigurata nella forma-nido delle paglie, dei tronchi e delle reti, e la percezione che questo viaggio verso il principio non sia lineare, bensí labirintico e destinato a non concludersi mai.
Sotto questo profilo, ogni sua china rappresenta una mappa parziale, un frammento topografico che non troverà mai una collocazione definitiva all´interno dell´ unità-mondo, proprio perché quest´ultimo, come già scrisse Italo Calvino, è costituito da una complessità essenzialmente inestricabile: "Quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile", pur sapendo che la "via d´uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all´altro".
Tale acquisizione, che Santacatterina ha sempre avvicinato con prudenza, senza mai estremizzarne le conseguenze, vibra non soltanto nei soggetti prima citati, ma anche nella rappresentazione prospettica del paesaggio, là dove il sublime e l´eroico romanticamente convivono: ecco allora quei panorami montani o marini striati da diagonali vertiginose, da nuvolaglie maestose, quei sottoboschi popolati di presagi, i medesimi che si leggono nelle contorsioni delle cortecce degli alberi, ai quali l´autore toglie volutamente tragicità, declinandola in fiaba.
[...]
Santacatterina risponde alla deriva contemporanea aderendo senza radicalismi alla grande cultura novecentesca ed evidenziando una tenera nostalgia per la civiltà preindustriale, quella che squadra lo spazio con l´aratro e gerarchizza i ruoli secondo l´ordine patriarcale.
Anche l´uso della punta fine per segnare confini, per moltiplicarli sul foglio sino alla fitta texture, va letto come una coerente soluzione formale ad una scelta etica, che subordina il labirinto (la forma-nido, che attenua lo spaesamento, ne è la conferma), ai valori certi con i quali un tempo si spartiva la proprietà, prima che questa diventasse mera quantità monetizzabile.
L´opera d´arte diventa insomma la lingua con la quale Santacatterina dissente dallo sviluppo, dalle "magnifiche sorti e progressive", che hanno desertificato le zolle e l´interiorità, contrapponendovi, appunto, la pazienza ed il rigore (li si legge nella tecnica adottata), quali farmaci antichi in grado di riportare l´umanità al centro dell´opera, là dove la società dovrebbe trarre ispirazione e modello.
Schio ,22 marzo 2008
Stefano Guglielmin
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