Una
stanza, tutto è a posto, anche
il
granello di polvere anche il raggio
di
luce, limpida, ortogonale, quando arriviamo
non
c’è più nessuno ma lì è
successo.
Non
ricordiamo,
hanno
ripulito tutto, non sappiamo
cosa
accadde, nemmeno che accadde
qualcosa,
non c’è più niente che (lo) provi. Tutto
è
dato nel proprio ordine, tutto
è
lindo e c’è, giustamente c’è — è
prevista —
una
zona di polvere, opaca, una macchia
di
sangue — apriamo la finestra, si respira a fatica, in fondo
alla
campagna si scorge delinearsi nettamente l’orizzonte del
pen-
siero.
(p
18)
C’è
un campo davanti alla casa, è coperto
ma
qua e là la neve si è sciolta, ha lasciato
intravedere
il nero, ogni tanto passa un cane del pensiero — c’è
[un
albero
che
trema sempre oltre il dire, tu nel meriggio
hai
un + sulla tempia, sull’altra un -
un
corvo è sullo steccato, disegnato; nell’anno ameno,
in
due usciamo a cogliere il nome dei fiori nel prato:
l’ucciso
è riverso là sullo sterrato,
la
porta si chiude all’azzurro irrisolto;
si
mangia qualcosa, si fa un pisolino, il vento
circola
nella bocca — piove, annotta, nel campanello
s’illumina
l’inquilino: un misero caso di morosità —
chi
da fuori guardasse
dalla
finestra vedrebbe sul capo chino
al
tavolo della cucina, sotto il filo
della
lampadina, pendere l’ombra anamorfica dello sfratto —
la
fortuna non è nella mano, una piccola
asta
compie il suo atto, segna le ore del palmo
al
bagliore di cieli vani — ed è qui che viviamo.
(p
19)
Fai
le tue preghiere una a una
nella
terra del canto, non hai altro
che
questo vento alle dita, giunto
da
una finestra qualunque
lasciata
aperta, soffio
dal
buio, paese delle cose
che
alla soglia si arrese sfinito ma vi lasciò
la
misura bianca alla fronte perché
si
inventasse un bene e il suo segno.
(p
37 )
La
voce che muore nel giorno
si
trascina fin qui, a questo foglio di luce
come
a un abbeveratoio, il grande discorso
cade
in ginocchio
colpito
in tutte le strade.
(p
56 )
Contano
i sospiri le urla
e
respirare, vivere è questo contare
le
urla una a una, qui dalla carne vicina
lasciata
aperta: cigola la testa che pensa
la
flaccida insensatezza del male, quell’andare
qua
e là come a caso ma poi fare
esattamente
il punto, la punta, l’uncino.
(p
106)
C’è
un punto preciso dove il metallo
ha
toccato l’occhio, lì
non
c’è immagine
ma
labbro sfondato, lo scontro
è
questo, sempre
tra
punta e nome
tra
il colpo e la voce,
dunque
tu offriti e inizia a parlare.
(p
107)
Non
ne eravamo certi ma tu
non
eri più qui: il vento che apre
una
finestra — il lampo che dirama, la grandine
al
vetro — non è un segno, nessuno ci chiama, solo
questo
che
tu graffi di notte alla porta
è
un segno, runa o impronta
che
ti annuncia e non si decifra: ieri abbiamo
girato
tutte le cose e non c’era
il
nome, abbiamo ordinato il paesaggio, preso
dimore
qualunque, terre
coltivabili
ma dicono che stai
già
col prato, salti il fossato, vai nell’incolto; dicono che
ti
contenti dei sassi e conosci le tane, che eludi i divieti,
sai
dove sono gli squarci nelle reti, urli di notte
qualcosa
di felice che noi non abbiamo più.
(p
114)
Quando
ti chiamavo per nome
la
bocca si riempiva di vento, un’ora
scontenta
sul mondo porta
a
vivere così, quando il bene resta solo
tu
vieni presa e fermata, iniziano
a
contarti i centesimi sulle ciglia
ti
viene tolto il minuto e sei
viva
senza mondo.
(p
115)
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